LA CANZONE DEL PIAVE
Inviato: mar 20 gen, 2009 4:55 pm
LA CANZONE DEL PIAVE
« Sono andato laggiù col fiume,
in un momento di noia le barche
le reti si sono lasciate toccare,
ho toccato la riva con mano »
(Atollo, Andrea Zanzotto)
“Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio”
(La Canzone del Piave)
Mi ha sempre infastidito quella “catena si San Antonio” telematica che da anni fa girare la storiella “Noi che negli anni 70 (ma c’è la variante anni 60 e 50) andavamo a scuola in bici, noi che bevevamo l’acqua dalla canna del giardino, noi che si giocava ai pirati … e mille altri luoghi comuni che fanno apparire i trentenni di oggi come l’ultima “classe di ferro”, mentre gli sbarbatelli nati negli anni 80 e 90 sono dei poveri sfigati, cresciuti rincoglionendosi davanti a TV e PC, incapaci di mettere il becco fuori di casa.
Molti motti di questa storiella sono anche veri, effettivamente, ma le generalizzazioni non mi sono mai piaciute. Però credo che i bambini nati negli anni 70 una cosa l’abbiano fatta davvero per ultimi: imparare la canzone del Piave (e forse anche l’inno d’Italia) a scuola.
La mia maestra, andata in pensione alla fine del mio ciclo elementare, nel 1985, era cresciuta come tutti quelli della sua generazione, nella retorica della vittoria del 1918, aveva attraversato i tragici eventi della II Guerra Mondiale (tra cui il famigerato eccidio di Pedescala, in cui i tedeschi per rappresaglia uccisero e bruciarono oltre 80 persone, un intero paese!).
Quella generazione aveva una concezione di patria che ora forse non c’è più; ed allora in classe, tutti a cantare a squarciagola: “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio, dei primi fanti il 24 maggio!!!”
Questi pensieri mi sorgevano mentre dirigevo la prua del vascello Cagiva verso il Fiume Sacro.
Obiettivo: ricacciare gli austriaci dalle Terre Invase … No, errore, non sto giocando a Risiko!
Obiettivo: mettere le ruote in fuoristrada, come sempre.
NELLE TERRE DI EZZELINO
Ma c’è da fare strada, fino al Piave, anzi, ALLA Piave. Perché nella antica parlata veneta alcuni fiumi avevano genere femminile: il Brenta era LA Brenta, è c’è ancora il termine femminile “Brentana” per descriver e l’alluvione del fiume, vocabolo che in Veneto si è esteso per antonomasia ad indicare l’ondata di piena di ogni corso d’acqua; i miei nonni mi portavano a vedere la “brentana” del Leogra, quando il detto torrente, che attraversa Schio e scorre a poca distanza dalla dimora avita, era in piena.
Per La Piave, pare che l’uso al maschile sia divenuto predominante dopo il 1918: il fiume Sacro alla Patria non poteva essere una donnicciola, doveva essere maschio e forte come la “maschia gioventù” del Pelatone che “spezzava le reni” in giro per l’Europa e l’Africa!
Dicevo, c’è da fare strada, ma col 750 faccio presto. La superstrada Gasparona mi porta oltre Bassano, verso Romano Alto, nelle terre del tiranno Ezzelino.
Quante volte sono passato sotto quel colle, sulla cui cima torreggia un bastione circolare; oggi è il momento giusto per fermarmi a curiosare.
La strada termina all’ingresso di un cimitero, una breve camminata di 2 minuti mi porta ai piedi della torre; non è certamente un manufatto medievale, sembra un neoromanico dell’1800.
Su questo colle sorgeva il castello dei Da Romano, che ebbero l’onore di essere citati da Dante nella sua Commedia, castello compreso:
La torre di Romano.
« In quella parte della terra prava
Italica, che siede intra Rialto
e le fontane di Brenta e di Piava
si leva un Colle e non surge molt'alto
là onde scese già una facella
che fece alla contrada un grande assalto. »
(Paradiso, canto IX)
E cita anche la castellana Cunizza, nota tra i suoi contemporanei per la lussuria e gli amanti tanto che, come lei stessa diceva, a chi le avesse chiesto cortesemente amore, sarebbe stata gran villania non concederlo!
« D'una radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d'esta stella;
ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo. »
(Paradiso, canto IX)
Ma il vecchio Dante la mette lo stesso in Paradiso: probabilmente anche i santi avranno bisogno di “svago” da tutto quel pregare, mi dico!
Non fu altrettanto umano col fratello di lei, il famigerato Ezzelino III il Tiranno, signore della Marca Trevigiana, di Vicenza, Verona, Padova e Brescia, vicario nonché genero dell’imperatore Federico II, capo dei ghibellini in Italia. Accusato di crimini ed efferatezze (dai nemici), di eresia e pure scomunicato, fu pure soggetto ad una crociata contro di lui: un tipo tutto pepe!
L’Alighieri lo confina fra i dannati, immerso nel fiume di sangue bollente riservato ai violenti:
« E quella fronte c'ha 'l pel così nero,
è Azzolino; »
(Inferno, canto XII).
Questo e altro ancora apprendo dai tabelloni posti in loco.
Basta indugiare nei meandri della storia, e riparto verso la pedemontana del Grappa.
Alves in P.S. a Cavaso, 2002 A.D..
Questa plaga è chiusa a nord est dalle scoscese pareti del massiccio del Grappa, cadenti a valle per 1.000 e più metri di pendii ripidissimi. Pochi km più a sud, una teoria di basse colline, disposte disordinatamente nella pianura, segue più o meno parallela la grande scogliera del Grappa: immagino siano il risultato dell’azione di antichi ghiacciai. Sono i colli di Romano e Mussolente, sottili increspature della pianura, mentre più ad est i colli Asolani riescono a superare i 400 m.s.l.m., demarcando il fianco sud della Valcavasia, occupata dagli abitati di Possagno e Cavaso.
Queste terre le ho sempre attraversate velocemente, per salire il Grappa o raggiungere le Prealpi Bellunesi poste più ad est; stavolta dedico qualche ora al girare randagio in queste lande.
In effetti però ci sono già stato in moto, partecipando a 2 gare del Campionato Enduro Triveneto che i MC della Marca organizzano qui, Cavaso e Monfumo.
Cavaso centra poco col giro odierno, dato che la gara che corsi si sviluppava interamente sulle pendici del Monfenera e del Tomba, estreme propaggini del Grappa, senza toccare le colline.
La ricordo terribile e difficilissima, massacranti percorsi giù per boali e scaranti della montagna, torrenti da seguire lungo e dentro il loro corso, voli micidiali con la moto che mi pioveva sulla testa; infatti mi ritirai per non morire.
Alves in P.S. a Monfumo, 2003 A.D..
Monfumo, pur partendo a pochissimi km in linea d’aria, era molto diversa. Il paese è una ridente borgata appollaiata sulla cima di uno dei cocuzzoli che formano le colline Asolane. Il percorso di gara si sviluppava tutto fra le collinette e i campi della zona, bassi rilievi assai antropizzati, con qualche residuo di bosco selvaggio.
Si seguivano torrenti, guadandoli più volte, si percorrevano sentieri lungo campi di stoppie e prati, o stretti ed ondulati nel bosco, sempre molto fangosi.
Anche se brevi, quei pezzi di fuoristrada non erano così facili, fra le poche gare che ho fatto questa ha senza dubbio Monfumo aveva i tratti di salita più tosti: di solito, per evitare tappi, le difficoltà sono sempre in discesa!
Il rovescio della medaglia fu la eccessiva brevità del percorso: non credo che il giro, da ripetere 3 volte, superasse i 40 km, e molti di questi erano di asfalto. Ai C.O. si arrivava con mezzore d’anticipo e lunghe code di piloti si formavano.
Torniamo al presente: abbandono la strada principale per inoltrarmi nella campagna, alla ricerca di sterrate che conducano da qualche parte; dopo qualche tentativo infruttuoso infilo una sterrata che, dopo aver passato dei fabbricati industriali, si perde nel contado; non sono solo, supero una coppia di Mountain bikers che procede nella stessa direzione.
La via si riduce sempre più, il fondo di ghiaia lascia il posto a terra, fango e pozze, gli alberi si serrano sulla via: non capisco più se sono in un percorso di natura umana, o se invece è l’alveo qualche torrentello o scolo.
Nelle pozze color cioccolata, alcune talmente ampie da invadere tutta la strada o greto che sia, l’acqua tocca i mozzi, ed oltre, delle ruote; sarebbe bello fermare la moto proprio al centro di una di queste, e scattare la foto dell’Elefante ai bagni, magari con l’apparizione alle spalle delle M-B: gli estremi del fuoristrada a 2 ruote assieme, biciclette e bicilindrici!
Ma non mi fido a passare al centro delle pozze, troppo è il timore che il fondo sia di sabbie mobili, che il Cagiva resti imprigionato; passo il più possibile a lato e, finalmente, compare un quadrivio con un carrareccia più praticabile.
Incrocio di fangose carrarecce nella pedemontana.
Prendo a est, e la via si fa migliore; costeggio campi, guado torrenti, passo affianco di antiche fattorie e case padronali abbandonate; passo anche a fianco a discariche di fanghi e chissà che altro, e non è un bel vedere, anche se qualche collega motociclista crossista ha improvvisato 4 salti fra quei cumuli di terra.
Un guado di uno dei tanti torrenti che percorrono la campagna.
Dopo qualche km immerso in questa campagna perdo il filo della sterrata, non riesco più a trocare un percorso su fondo naturale che mi faccia proseguire verso est; prendo l’asfalto e mi dirigo verso Paderno e Castelcucco, con l’intenzione di attraversare i modesti rilievi che mi separano dalla Valcavasia, colline dove corsi la gara nel 2003.
Valico sterrato fra i colli della pedemontana.
Ma questi non sono percorsi da Bicilindrico: al più si trovano stretti sentieri e qualche carrareccia, la viabilità maggiore è quasi tutta asfaltata, non si trovano sterrate; la moto ideale per esplorare queste campagne è una Alp200, o qualche moto simile, non servono specialistiche enduro e trial, e nemmeno i pesi massimi del fuoristrada.
Il tempio del Canova a Possagno.
Campagna ghiacciata 1.
scollino da una via secondaria ancora di terra e sasso, e, circondato da una aureola di bianche cime, mi appare il maestoso tempio canoviano di Possagno.
Sono ora nel versante nord delle colline, quasi mai illuminato da sole; mentre a poche centinaia di metri i campi sono del colore giallo spento delle stoppie d’inverno, dove mi trovo è tutto un luccichio di brina e cristalli di ghiaccio anche sugli alberi; la terra è dura e ghiacciata in profondità, cautamente avanzo seguendo il corso di un torrente limpidissimo.
Campagna ghiacciata 2.
Si nota bene in questa foto la mancanza di parafango anteriore del Cagiva; lo avevo semi rotto nella spedizione sull’Adige, oggi alla partenza ha ceduto del tutto; non avendo tempo di rimediare, ho fatto senza. Non è una grande idea: finche c’è asfalto o sterrate dal fondo compatto si procede bene, ma appena c’è un po’ di fango ed acqua gli schizzi salgono fino ad imbrattarmi la visiera del casco, rendendo difficile la guida! Incredibile quanto un particolare così poco considerato come il parafango anteriore sia importante in off-road!
Vagando per campi riconosco alcuni dei punti della gara del 2003, come un pendio erboso dove ci facevano scendere in contropendenza; esco dal cono d’ombra delle colline e la strada, che era finora carrabile, si riduce ad un sentierino perso dentro un boschetto, tutto di fango e pozze; anche qui procedo a passo d’uomo, cercando di stare sui bordi, e chi mi vedo arrivare? I M-Biker di prima! Mi hanno raggiunto in bicicletta! Probabilmente loro non hanno gironzolato lungo le colline, ma gli avevo lasciati circa 12 km indietro … non è da andarne fieri!
Finalmente guadagno l’asfalto, e tosto senza indugi mi dirigo verso il Piave.
SUL PIAVE NON PASSA LO STRANIERO
Mi perdo nei paesi rivieraschi del fiume, alla ricerca urgente di un benzinaio; ebbene sì, ammetto l’assurdo: ero entrato in riserva (circa 4 litri) ancora sulle colline, ed avevo un paura atroce di rimanere a secco; sarebbe stato il colmo trovarsi senza benzina con un serbatoio da 19 litri.
Altro tempo lo perdo a cercare un accesso alla vasta golena del fiume; molte stradine si perdono in case private, fattorie, altre hanno il divieto; oddio, tutte conducono dove non si potrebbe andare, ma per essere a posto con la coscienza cerco un accesso che non dia nell’occhio, che magari non sia tabellato: alle guardie potrò sempre dire “vengo da lontano, non sapevo, non ho visto …”. Trovo quel che cerco, e mi inoltro nelle grave del Piave.
Adoro questi ambienti fluviali di pianura, sono unici. Sabbia, terra, fango, pietre e guadi tutt’intorno, è la “mia Africa”, la mia landa da esplorare, incorniciata dalle montagne innevate. Mi dirigo verso nord lungo sterrate “africane”, dove libero i cv del pompone Ducati; giungo nei pressi di una cava, o meglio, ne avverto i rumori e intravedo sopra le chiome degli alberi le strutture metalliche dell’impianto; meglio evitare incontri sgraditi, quindi giro verso est, verso il fiume.
Nella brughiera …
… e nei rami in secca.
Alla camionabile sterrata segue una pista erbosa nel “bush” che va a morire nelle spiagge ciottolose del fiume; qui lingue di sabbia si alternano e rincorrono a isolotti ghiaiosi, scarpate improvvise si aprono sotto alle ruote. Seguo la corrente verso il mare, cercando di non andare troppo verso il centro del Piave, ma qualche piccolo ramo laterale non mi fa mancare l’appuntamento con il guado. Il fiume mi sembra in magra, con una enduro specialistica si potrebbe tentare il guado completo da sponda a sponda, navigando da un isolotto all’altro. Ma la mia bicilindrica è troppo grossa, troppo giù di gomma e carente di sospensioni per viaggiare sciolta su tali fondi.
“Ho toccato la riva con mano.”
Nelle grave del Piave.
Verso il Montello.
Proseguendo verso Sud est il morbido profilo del Montello si erge sulle grave del fiume; è la mia prossima meta.
Dalle praterie steppose passo a campi coltivati, prendo quella che sembra una carrareccia che riporta verso la civiltà ma in realtà si perde in una radura; per uscirne provo a fa manovra attraversando un insignificante avvallamento erboso, chiuso da un gradino di terra, ma la Cagiva si pianta! La ruota posteriore si impacca di fango e gira vuoto, non mi sposto di un mm, sono fregato!
“Elefant-aratro”.
Cerco di orientare la moto verso il punto meno ripido del gradino, spingo a lato, accelero, accelero, accelero, accelero, patinando la ruota motrice riesce a mettersi in moto e pian piano ne esco, distrutto nel fisico ma ebbro nel morale!
Ritorno sui miei passi, incrocio un trattore agricolo e lo seguo verso l’uscita dal “parco giochi”: anche stavolta è andata bene!
Elefante ai fanghi; notare il bauletto.
Ed ora tocca al Montello.
La collina è un esteso rilievo a forma di fagiolo allungato, che non raggiunge nemmeno i 400 m.s.l.m.. è un luogo ricco di interessanti attrattive per il viaggiatore curioso.
Il bosco che lo ricopre funse da materia prima per le galee della Serenissima Repubblica; nella I guerra mondiale fu baluardo della resistenza italiana dopo Caporetto, e cippi, monumenti, postazioni militari da visitare non mancano; il sottosuolo carsico è ricco di grotte, regno degli speleologi; le strade che lo percorrono sono assai frequentate da cicloturisti.
Le strade: interessano anche a me.
La dorsale del Montello è percorsa per tutta la sua lunghezza dalla SP 144 da Montebelluna a Nervesa della Battaglia. Questa via è intersecata da 21 stradine che si inerpicano lungo il fianco sud della collina e ridiscendono dal lato opposto, sembra quasi la lisca di un pesce!
Queste vie sono chiamate “Prese”, da "prendere il legname"; vengono indicate tramite un numero e un nome che solitamente ricorda i caduti della Grande Guerra. Su internet si trova l’elenco completo con una descrizione ad uso dei ciclisti. Dopo approfonditi studi avevo calcolato che le “Prese” misuravano in tutto oltre 100 km di sviluppo, di cui, supponevo almeno qualche decina di sterrato. Quelle volevo fare, le Prese sterrate su e giù dalla dorsale.
Imbocco la presa più vicina, fra un tripudio di zolle di terra scagliate nel cosmo dalla ruota anteriore; questa è interamente asfaltata, ance se non dovrebbe esserlo; arrivo così sulla dorsale, ed inizio a percorrerla, cercando l’imbocco delle prese sterrate indicate dalla mia ricerca. Ma ogni qual volta arrivo ad un incrocio, le strade sono asfaltate: le indicazioni raccolte non corrispondono, e mi sorge il triste dubbio che dalla redazione della guida da me consultata le amministrazioni si siano date da fare a spandere bitume sulle prese.
Mentre sono fermo per ragionare su cosa fare, noto una strana inclinazione del bauletto; osservo con cura, smontando la sella, e la sorpresa è raccapricciante: ho di nuovo tranciato 2 dei 4 supporti della piastra porta bauletto!
Che Moto di Merda!!! Il bauletto era pieno di ricambi (attrezzi, camere, pompa), quasi 10 kg di roba, compreso lo stesso baule; ma è possibile che non resista a tale carico in off? Devo rassegnarmi a metterci solo un sacco a pelo (magari solo estivo!)?
Secondo il mio saldatore di fiducia non è solo il fattore peso, ma anche le potenti vibrazioni di cui è capace il Ducati criccano le saldature e il ferraccio di cui è fatta la piastra porta bauletto.
Qui finisce il giro, il Montello ha fermato lo straniero, come da Canzone:
Era un presagio dolce e lusinghiero.
il Piave mormorò: "Non passa lo straniero!"
Mi consolerò così, a fettuccine e vino in una osteria tipica trevigiana!
Ciao
Alves
« Sono andato laggiù col fiume,
in un momento di noia le barche
le reti si sono lasciate toccare,
ho toccato la riva con mano »
(Atollo, Andrea Zanzotto)
“Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio”
(La Canzone del Piave)
Mi ha sempre infastidito quella “catena si San Antonio” telematica che da anni fa girare la storiella “Noi che negli anni 70 (ma c’è la variante anni 60 e 50) andavamo a scuola in bici, noi che bevevamo l’acqua dalla canna del giardino, noi che si giocava ai pirati … e mille altri luoghi comuni che fanno apparire i trentenni di oggi come l’ultima “classe di ferro”, mentre gli sbarbatelli nati negli anni 80 e 90 sono dei poveri sfigati, cresciuti rincoglionendosi davanti a TV e PC, incapaci di mettere il becco fuori di casa.
Molti motti di questa storiella sono anche veri, effettivamente, ma le generalizzazioni non mi sono mai piaciute. Però credo che i bambini nati negli anni 70 una cosa l’abbiano fatta davvero per ultimi: imparare la canzone del Piave (e forse anche l’inno d’Italia) a scuola.
La mia maestra, andata in pensione alla fine del mio ciclo elementare, nel 1985, era cresciuta come tutti quelli della sua generazione, nella retorica della vittoria del 1918, aveva attraversato i tragici eventi della II Guerra Mondiale (tra cui il famigerato eccidio di Pedescala, in cui i tedeschi per rappresaglia uccisero e bruciarono oltre 80 persone, un intero paese!).
Quella generazione aveva una concezione di patria che ora forse non c’è più; ed allora in classe, tutti a cantare a squarciagola: “Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio, dei primi fanti il 24 maggio!!!”
Questi pensieri mi sorgevano mentre dirigevo la prua del vascello Cagiva verso il Fiume Sacro.
Obiettivo: ricacciare gli austriaci dalle Terre Invase … No, errore, non sto giocando a Risiko!
Obiettivo: mettere le ruote in fuoristrada, come sempre.
NELLE TERRE DI EZZELINO
Ma c’è da fare strada, fino al Piave, anzi, ALLA Piave. Perché nella antica parlata veneta alcuni fiumi avevano genere femminile: il Brenta era LA Brenta, è c’è ancora il termine femminile “Brentana” per descriver e l’alluvione del fiume, vocabolo che in Veneto si è esteso per antonomasia ad indicare l’ondata di piena di ogni corso d’acqua; i miei nonni mi portavano a vedere la “brentana” del Leogra, quando il detto torrente, che attraversa Schio e scorre a poca distanza dalla dimora avita, era in piena.
Per La Piave, pare che l’uso al maschile sia divenuto predominante dopo il 1918: il fiume Sacro alla Patria non poteva essere una donnicciola, doveva essere maschio e forte come la “maschia gioventù” del Pelatone che “spezzava le reni” in giro per l’Europa e l’Africa!
Dicevo, c’è da fare strada, ma col 750 faccio presto. La superstrada Gasparona mi porta oltre Bassano, verso Romano Alto, nelle terre del tiranno Ezzelino.
Quante volte sono passato sotto quel colle, sulla cui cima torreggia un bastione circolare; oggi è il momento giusto per fermarmi a curiosare.
La strada termina all’ingresso di un cimitero, una breve camminata di 2 minuti mi porta ai piedi della torre; non è certamente un manufatto medievale, sembra un neoromanico dell’1800.
Su questo colle sorgeva il castello dei Da Romano, che ebbero l’onore di essere citati da Dante nella sua Commedia, castello compreso:
La torre di Romano.
« In quella parte della terra prava
Italica, che siede intra Rialto
e le fontane di Brenta e di Piava
si leva un Colle e non surge molt'alto
là onde scese già una facella
che fece alla contrada un grande assalto. »
(Paradiso, canto IX)
E cita anche la castellana Cunizza, nota tra i suoi contemporanei per la lussuria e gli amanti tanto che, come lei stessa diceva, a chi le avesse chiesto cortesemente amore, sarebbe stata gran villania non concederlo!
« D'una radice nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d'esta stella;
ma lietamente a me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo. »
(Paradiso, canto IX)
Ma il vecchio Dante la mette lo stesso in Paradiso: probabilmente anche i santi avranno bisogno di “svago” da tutto quel pregare, mi dico!
Non fu altrettanto umano col fratello di lei, il famigerato Ezzelino III il Tiranno, signore della Marca Trevigiana, di Vicenza, Verona, Padova e Brescia, vicario nonché genero dell’imperatore Federico II, capo dei ghibellini in Italia. Accusato di crimini ed efferatezze (dai nemici), di eresia e pure scomunicato, fu pure soggetto ad una crociata contro di lui: un tipo tutto pepe!
L’Alighieri lo confina fra i dannati, immerso nel fiume di sangue bollente riservato ai violenti:
« E quella fronte c'ha 'l pel così nero,
è Azzolino; »
(Inferno, canto XII).
Questo e altro ancora apprendo dai tabelloni posti in loco.
Basta indugiare nei meandri della storia, e riparto verso la pedemontana del Grappa.
Alves in P.S. a Cavaso, 2002 A.D..
Questa plaga è chiusa a nord est dalle scoscese pareti del massiccio del Grappa, cadenti a valle per 1.000 e più metri di pendii ripidissimi. Pochi km più a sud, una teoria di basse colline, disposte disordinatamente nella pianura, segue più o meno parallela la grande scogliera del Grappa: immagino siano il risultato dell’azione di antichi ghiacciai. Sono i colli di Romano e Mussolente, sottili increspature della pianura, mentre più ad est i colli Asolani riescono a superare i 400 m.s.l.m., demarcando il fianco sud della Valcavasia, occupata dagli abitati di Possagno e Cavaso.
Queste terre le ho sempre attraversate velocemente, per salire il Grappa o raggiungere le Prealpi Bellunesi poste più ad est; stavolta dedico qualche ora al girare randagio in queste lande.
In effetti però ci sono già stato in moto, partecipando a 2 gare del Campionato Enduro Triveneto che i MC della Marca organizzano qui, Cavaso e Monfumo.
Cavaso centra poco col giro odierno, dato che la gara che corsi si sviluppava interamente sulle pendici del Monfenera e del Tomba, estreme propaggini del Grappa, senza toccare le colline.
La ricordo terribile e difficilissima, massacranti percorsi giù per boali e scaranti della montagna, torrenti da seguire lungo e dentro il loro corso, voli micidiali con la moto che mi pioveva sulla testa; infatti mi ritirai per non morire.
Alves in P.S. a Monfumo, 2003 A.D..
Monfumo, pur partendo a pochissimi km in linea d’aria, era molto diversa. Il paese è una ridente borgata appollaiata sulla cima di uno dei cocuzzoli che formano le colline Asolane. Il percorso di gara si sviluppava tutto fra le collinette e i campi della zona, bassi rilievi assai antropizzati, con qualche residuo di bosco selvaggio.
Si seguivano torrenti, guadandoli più volte, si percorrevano sentieri lungo campi di stoppie e prati, o stretti ed ondulati nel bosco, sempre molto fangosi.
Anche se brevi, quei pezzi di fuoristrada non erano così facili, fra le poche gare che ho fatto questa ha senza dubbio Monfumo aveva i tratti di salita più tosti: di solito, per evitare tappi, le difficoltà sono sempre in discesa!
Il rovescio della medaglia fu la eccessiva brevità del percorso: non credo che il giro, da ripetere 3 volte, superasse i 40 km, e molti di questi erano di asfalto. Ai C.O. si arrivava con mezzore d’anticipo e lunghe code di piloti si formavano.
Torniamo al presente: abbandono la strada principale per inoltrarmi nella campagna, alla ricerca di sterrate che conducano da qualche parte; dopo qualche tentativo infruttuoso infilo una sterrata che, dopo aver passato dei fabbricati industriali, si perde nel contado; non sono solo, supero una coppia di Mountain bikers che procede nella stessa direzione.
La via si riduce sempre più, il fondo di ghiaia lascia il posto a terra, fango e pozze, gli alberi si serrano sulla via: non capisco più se sono in un percorso di natura umana, o se invece è l’alveo qualche torrentello o scolo.
Nelle pozze color cioccolata, alcune talmente ampie da invadere tutta la strada o greto che sia, l’acqua tocca i mozzi, ed oltre, delle ruote; sarebbe bello fermare la moto proprio al centro di una di queste, e scattare la foto dell’Elefante ai bagni, magari con l’apparizione alle spalle delle M-B: gli estremi del fuoristrada a 2 ruote assieme, biciclette e bicilindrici!
Ma non mi fido a passare al centro delle pozze, troppo è il timore che il fondo sia di sabbie mobili, che il Cagiva resti imprigionato; passo il più possibile a lato e, finalmente, compare un quadrivio con un carrareccia più praticabile.
Incrocio di fangose carrarecce nella pedemontana.
Prendo a est, e la via si fa migliore; costeggio campi, guado torrenti, passo affianco di antiche fattorie e case padronali abbandonate; passo anche a fianco a discariche di fanghi e chissà che altro, e non è un bel vedere, anche se qualche collega motociclista crossista ha improvvisato 4 salti fra quei cumuli di terra.
Un guado di uno dei tanti torrenti che percorrono la campagna.
Dopo qualche km immerso in questa campagna perdo il filo della sterrata, non riesco più a trocare un percorso su fondo naturale che mi faccia proseguire verso est; prendo l’asfalto e mi dirigo verso Paderno e Castelcucco, con l’intenzione di attraversare i modesti rilievi che mi separano dalla Valcavasia, colline dove corsi la gara nel 2003.
Valico sterrato fra i colli della pedemontana.
Ma questi non sono percorsi da Bicilindrico: al più si trovano stretti sentieri e qualche carrareccia, la viabilità maggiore è quasi tutta asfaltata, non si trovano sterrate; la moto ideale per esplorare queste campagne è una Alp200, o qualche moto simile, non servono specialistiche enduro e trial, e nemmeno i pesi massimi del fuoristrada.
Il tempio del Canova a Possagno.
Campagna ghiacciata 1.
scollino da una via secondaria ancora di terra e sasso, e, circondato da una aureola di bianche cime, mi appare il maestoso tempio canoviano di Possagno.
Sono ora nel versante nord delle colline, quasi mai illuminato da sole; mentre a poche centinaia di metri i campi sono del colore giallo spento delle stoppie d’inverno, dove mi trovo è tutto un luccichio di brina e cristalli di ghiaccio anche sugli alberi; la terra è dura e ghiacciata in profondità, cautamente avanzo seguendo il corso di un torrente limpidissimo.
Campagna ghiacciata 2.
Si nota bene in questa foto la mancanza di parafango anteriore del Cagiva; lo avevo semi rotto nella spedizione sull’Adige, oggi alla partenza ha ceduto del tutto; non avendo tempo di rimediare, ho fatto senza. Non è una grande idea: finche c’è asfalto o sterrate dal fondo compatto si procede bene, ma appena c’è un po’ di fango ed acqua gli schizzi salgono fino ad imbrattarmi la visiera del casco, rendendo difficile la guida! Incredibile quanto un particolare così poco considerato come il parafango anteriore sia importante in off-road!
Vagando per campi riconosco alcuni dei punti della gara del 2003, come un pendio erboso dove ci facevano scendere in contropendenza; esco dal cono d’ombra delle colline e la strada, che era finora carrabile, si riduce ad un sentierino perso dentro un boschetto, tutto di fango e pozze; anche qui procedo a passo d’uomo, cercando di stare sui bordi, e chi mi vedo arrivare? I M-Biker di prima! Mi hanno raggiunto in bicicletta! Probabilmente loro non hanno gironzolato lungo le colline, ma gli avevo lasciati circa 12 km indietro … non è da andarne fieri!
Finalmente guadagno l’asfalto, e tosto senza indugi mi dirigo verso il Piave.
SUL PIAVE NON PASSA LO STRANIERO
Mi perdo nei paesi rivieraschi del fiume, alla ricerca urgente di un benzinaio; ebbene sì, ammetto l’assurdo: ero entrato in riserva (circa 4 litri) ancora sulle colline, ed avevo un paura atroce di rimanere a secco; sarebbe stato il colmo trovarsi senza benzina con un serbatoio da 19 litri.
Altro tempo lo perdo a cercare un accesso alla vasta golena del fiume; molte stradine si perdono in case private, fattorie, altre hanno il divieto; oddio, tutte conducono dove non si potrebbe andare, ma per essere a posto con la coscienza cerco un accesso che non dia nell’occhio, che magari non sia tabellato: alle guardie potrò sempre dire “vengo da lontano, non sapevo, non ho visto …”. Trovo quel che cerco, e mi inoltro nelle grave del Piave.
Adoro questi ambienti fluviali di pianura, sono unici. Sabbia, terra, fango, pietre e guadi tutt’intorno, è la “mia Africa”, la mia landa da esplorare, incorniciata dalle montagne innevate. Mi dirigo verso nord lungo sterrate “africane”, dove libero i cv del pompone Ducati; giungo nei pressi di una cava, o meglio, ne avverto i rumori e intravedo sopra le chiome degli alberi le strutture metalliche dell’impianto; meglio evitare incontri sgraditi, quindi giro verso est, verso il fiume.
Nella brughiera …
… e nei rami in secca.
Alla camionabile sterrata segue una pista erbosa nel “bush” che va a morire nelle spiagge ciottolose del fiume; qui lingue di sabbia si alternano e rincorrono a isolotti ghiaiosi, scarpate improvvise si aprono sotto alle ruote. Seguo la corrente verso il mare, cercando di non andare troppo verso il centro del Piave, ma qualche piccolo ramo laterale non mi fa mancare l’appuntamento con il guado. Il fiume mi sembra in magra, con una enduro specialistica si potrebbe tentare il guado completo da sponda a sponda, navigando da un isolotto all’altro. Ma la mia bicilindrica è troppo grossa, troppo giù di gomma e carente di sospensioni per viaggiare sciolta su tali fondi.
“Ho toccato la riva con mano.”
Nelle grave del Piave.
Verso il Montello.
Proseguendo verso Sud est il morbido profilo del Montello si erge sulle grave del fiume; è la mia prossima meta.
Dalle praterie steppose passo a campi coltivati, prendo quella che sembra una carrareccia che riporta verso la civiltà ma in realtà si perde in una radura; per uscirne provo a fa manovra attraversando un insignificante avvallamento erboso, chiuso da un gradino di terra, ma la Cagiva si pianta! La ruota posteriore si impacca di fango e gira vuoto, non mi sposto di un mm, sono fregato!
“Elefant-aratro”.
Cerco di orientare la moto verso il punto meno ripido del gradino, spingo a lato, accelero, accelero, accelero, accelero, patinando la ruota motrice riesce a mettersi in moto e pian piano ne esco, distrutto nel fisico ma ebbro nel morale!
Ritorno sui miei passi, incrocio un trattore agricolo e lo seguo verso l’uscita dal “parco giochi”: anche stavolta è andata bene!
Elefante ai fanghi; notare il bauletto.
Ed ora tocca al Montello.
La collina è un esteso rilievo a forma di fagiolo allungato, che non raggiunge nemmeno i 400 m.s.l.m.. è un luogo ricco di interessanti attrattive per il viaggiatore curioso.
Il bosco che lo ricopre funse da materia prima per le galee della Serenissima Repubblica; nella I guerra mondiale fu baluardo della resistenza italiana dopo Caporetto, e cippi, monumenti, postazioni militari da visitare non mancano; il sottosuolo carsico è ricco di grotte, regno degli speleologi; le strade che lo percorrono sono assai frequentate da cicloturisti.
Le strade: interessano anche a me.
La dorsale del Montello è percorsa per tutta la sua lunghezza dalla SP 144 da Montebelluna a Nervesa della Battaglia. Questa via è intersecata da 21 stradine che si inerpicano lungo il fianco sud della collina e ridiscendono dal lato opposto, sembra quasi la lisca di un pesce!
Queste vie sono chiamate “Prese”, da "prendere il legname"; vengono indicate tramite un numero e un nome che solitamente ricorda i caduti della Grande Guerra. Su internet si trova l’elenco completo con una descrizione ad uso dei ciclisti. Dopo approfonditi studi avevo calcolato che le “Prese” misuravano in tutto oltre 100 km di sviluppo, di cui, supponevo almeno qualche decina di sterrato. Quelle volevo fare, le Prese sterrate su e giù dalla dorsale.
Imbocco la presa più vicina, fra un tripudio di zolle di terra scagliate nel cosmo dalla ruota anteriore; questa è interamente asfaltata, ance se non dovrebbe esserlo; arrivo così sulla dorsale, ed inizio a percorrerla, cercando l’imbocco delle prese sterrate indicate dalla mia ricerca. Ma ogni qual volta arrivo ad un incrocio, le strade sono asfaltate: le indicazioni raccolte non corrispondono, e mi sorge il triste dubbio che dalla redazione della guida da me consultata le amministrazioni si siano date da fare a spandere bitume sulle prese.
Mentre sono fermo per ragionare su cosa fare, noto una strana inclinazione del bauletto; osservo con cura, smontando la sella, e la sorpresa è raccapricciante: ho di nuovo tranciato 2 dei 4 supporti della piastra porta bauletto!
Che Moto di Merda!!! Il bauletto era pieno di ricambi (attrezzi, camere, pompa), quasi 10 kg di roba, compreso lo stesso baule; ma è possibile che non resista a tale carico in off? Devo rassegnarmi a metterci solo un sacco a pelo (magari solo estivo!)?
Secondo il mio saldatore di fiducia non è solo il fattore peso, ma anche le potenti vibrazioni di cui è capace il Ducati criccano le saldature e il ferraccio di cui è fatta la piastra porta bauletto.
Qui finisce il giro, il Montello ha fermato lo straniero, come da Canzone:
Era un presagio dolce e lusinghiero.
il Piave mormorò: "Non passa lo straniero!"
Mi consolerò così, a fettuccine e vino in una osteria tipica trevigiana!
Ciao
Alves