Chevauchée de S.A.D.E.
Inviato: mar 05 mag, 2009 2:31 am
“Sono le 22.39 [del 9 ottobre 1963 ndr]. Un lampo accecante, un pauroso boato. Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle, risucchiando dentro il lago i villaggi di San Martino e Spesse. La storia del «grande Vajont», durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime.”
Da “Sulla pelle viva” di Tina Merlin p. 120
Da questo libro, splendido e terribile, nasce l’idea di un viaggio sui luoghi del disastro del Vajont, luoghi che tra l’altro conosco abbastanza bene, visto che quand’ero all’università ci ho girato un mediometraggio, sempre inerente al disastro.
L’idea iniziale di itinerario passa per Belluno, Longarone, Diga del Vajont, Casso, Loc. Pineda, Loc. Prada, Loc. San Martino, Erto, per poi proseguire lungo la Valcellina (verificando la possibilità di percorrere la strada vecchia a strapiombo sul torrente), fino a Montereale Valcellina, Maniago, Vajont e rientro.
Purtroppo non è stato possibile chiudere l’anello per motivi di tempo, ma ci tenevo a postare il resoconto ugualmente. Ne seguità un altro più approfondito appena avrò la possibilità di fare tutto il giro.
Partenza morbida, facce brutte... Il vino della sera prima appesantisce la palpebra. La situazione non è poi così tragica, certo non sufficiente a mancare alla parola data a mio cugino di portarlo a fare un giro memorabile a dorso di mula.
Canonici dieci minuti di ritardo, sennò non sarei io...
Già dopo tre km di strada il primo fastidio: l’interfono dei caschi con le batterie scariche. Beh poco male, partiti da Chiuppano, siamo solo sulla strada di Camisino. Fare un salto a casa a prendere il caricabatterie non è cosa lunga. Tra l’altro si rivela una simpatica scusa per fare una sterratina che da Lugo esce in cima alle Bregonze in località Ca’ Vecia. Peccato non sia neanche un km...
Le lancette corrono, noi meno. Poco di memorabile da raccontare del tratto Chiuppano – Bassano, ma, imboccata la “Destra Brenta”, strada che da Bassano corre parallela alla SS 47 Valsugana fino a Cismon del Grappa, il paesaggio comincia a farsi interessante. Il Brenta è in piena come raramente mi è capitato di vedere. A Valstagna una colonna di gommoni discende il fiume, teoria di punti giallo-rossi nel tumulto delle rapide, uno spettacolo. Tra l’altro la giornata ce la sta mettendo tutta per farsi ben volere: cielo limpido e caldo estivo, nessuna pericolosa nuvola all’orizzonte.
Proseguiamo fino al Cornale su questa stradina che, abbandonata Valstagna, diventa poco più che una pista ciclabile. L’idea è di salire le “Scale di Primolano” evitando il tunnel di Arsiè, ormai venuto a noia. Qua ci tocca il secondo pacco. Arrivati a Primolano troviamo la strada delle scale chiusa al traffico. Interroghiamo un passante che non ci sa dare lumi, quindi ripieghiamo per lo stramaledettissimo tunnel di cui sopra.
Oltrepassiamo Feltre e ci fermiamo a mangiare una pizza in centro a Belluno, anche per ricaricare l’interfono. Viaggiare in compagnia e potersi parlare, commentare il paesaggio eccetera è tutt’altra cosa!
Vabbeh, lo ammetto, ad un certo punto mi sono quasi perso. Ma alla fine riusciamo ad intercettare la SS Allemagna ed arrivare in vista di Longarone. Diamo da bere alla zia Peggy e ci appropinquiamo alla salita.
La prima foto di me e la zia Peggy insieme! Sullo sfondo la valle del Vajont
La strada che porta alla diga è semplicemente infestata di gente che va di fretta: “ciucciamanubri” ci sfrecciano da ogni parte infastiditi dalla mia andatura assolutamente turistica. Perfino un demente in macchina azzarda una manovra da manuale dell’aspirante suicida
Un paio di gallerie e qualche tornante e ci troviamo al cospetto del più mastodontico monumento all’idiozia umana.
Alta 264,6 metri, all’epoca della costruzione (iniziata nel 1957 e terminata nel 1959) era la più alta diga a doppio arco del mondo. Costruita dalla Società Adriatica Di Elettricità, la S.A.D.E. (da cui il titolo...), successivamente ceduta all’ENEL nell’ambito della nazionalizzazione degli enti di produzione elettrica in atto nel periodo immediatamente precedente il disastro.
Il colpo d’occhio è semplicemente mozzafiato. Da dove siamo non riusciamo a vedere il piede della diga. Al di là il paesaggio si fa quasi lunare. Più imponente del manufatto è l’accumulo della frana, che forma una vera e propria montagna dove prima c’era una gola profonda quasi trecento metri.
Alzando la testa è chiaramente visibile l’ampia ferita sul fianco del monte Toc, la cosiddetta “M” di Muller, dal nome del geologo austriaco che aveva individuato la possibile frana. Si sviluppa per un fronte di circa due km e c’è una strada che passa alla sua base.
Proseguiamo alla volta dell’abitato di Casso. Il paese è abbarbicato sul pendio del monte Salta, quasi in corrispondenza della diga. Qui il tempo sembra essersi fermato, c’è pure un’auto d’epoca parcheggiata nella piazzetta del paese, unico posto raggiungibile dai mezzi motorizzati. Casso è stato solamente lambito dall’onda, data la sua posizione elevata, e conserva tutto il facino dell’antico borgo di montagna.
io non posso entrare...
Da Casso proseguiamo in nostro periplo di quel che resta del lago del Vajont. Adesso l’obiettivo è la strada che passa sulle pendici del Toc, sotto il punto da cui si è staccata la frana e che probabilmente riproduce il tracciato della strada che la S.A.D.E. aveva fatto costruire attorno al lago e che passa per le frazioni di San Martino Prada e Pineda, borghi completamente cancellati dalla furia dell’acqua. Transitiamo attraverso il centro storico di Erto, ovvero la parte che si è salvata e successivamente restaurata. Devono aver fatto degli interventi negli ultimi anni, non me la ricordavo messa così bene...
Finalmente arriviamo dall’altra parte della valle. La strada che cavalca il monte Toc si rivela una splendida sorpresa! In parte sterrata, disseminata di gallerie dai soffitti perennemente gocciolanti, si snoda lungo il pendio regalandoci viste incredibili della valle sottostante. Le gallerie sono talmente infiltrate d’acqua che all’interno pare sia in atto un acquazzone, il fondo cosparso di buche e pozzanghere.
La strada prosegue attraversando piccoli grumi di case costruite sicuramente successivamente al disastro, inframezzate da boschi di conifere. La zia Peggy morde allegramente la ghiaia, finalmente si va in giostra! In realtà i tratti sterrati sono pochi e brevi, anche se si fatica a distinguerli dall’asfalto frantumato e smangiato dall’acqua. Arriviamo al punto da cui inizia la fatidica “M”. La spaccatura nella montagna è ancora evidente, così come la cascata di ghiaia che precipita nella valle. Quella notte nel bacino ne son caduti 270 milioni di metri cubi, alla velocità di 30 m/s. Ma la diga ha retto. Pur con una sollecitazione pari a sette volte quella per cui era stata costruita. Bravi tutti. NESSUNO PAGA!
Fa un effetto strano guardare la valle da qui. Ci si rende conto delle dimensioni. Leggendo la storia di carta, non si riesce davvero a concepire l’enormità “fisica” degli elementi in gioco.
Da qui la strada chiude l’anello sfociando sulla statale poco sopra il parcheggio sovrastante la diga. È ormai troppo tardi per proseguire per la Val Cellina. Torniamo verso Longarone e da lì a casa.
PS. portate pazienza per la qualità delle foto, sono fatte col cellulare, dato che mia madre si è portata la macchina fotografica in Egitto...
Da “Sulla pelle viva” di Tina Merlin p. 120
Da questo libro, splendido e terribile, nasce l’idea di un viaggio sui luoghi del disastro del Vajont, luoghi che tra l’altro conosco abbastanza bene, visto che quand’ero all’università ci ho girato un mediometraggio, sempre inerente al disastro.
L’idea iniziale di itinerario passa per Belluno, Longarone, Diga del Vajont, Casso, Loc. Pineda, Loc. Prada, Loc. San Martino, Erto, per poi proseguire lungo la Valcellina (verificando la possibilità di percorrere la strada vecchia a strapiombo sul torrente), fino a Montereale Valcellina, Maniago, Vajont e rientro.
Purtroppo non è stato possibile chiudere l’anello per motivi di tempo, ma ci tenevo a postare il resoconto ugualmente. Ne seguità un altro più approfondito appena avrò la possibilità di fare tutto il giro.
Partenza morbida, facce brutte... Il vino della sera prima appesantisce la palpebra. La situazione non è poi così tragica, certo non sufficiente a mancare alla parola data a mio cugino di portarlo a fare un giro memorabile a dorso di mula.
Canonici dieci minuti di ritardo, sennò non sarei io...
Già dopo tre km di strada il primo fastidio: l’interfono dei caschi con le batterie scariche. Beh poco male, partiti da Chiuppano, siamo solo sulla strada di Camisino. Fare un salto a casa a prendere il caricabatterie non è cosa lunga. Tra l’altro si rivela una simpatica scusa per fare una sterratina che da Lugo esce in cima alle Bregonze in località Ca’ Vecia. Peccato non sia neanche un km...
Le lancette corrono, noi meno. Poco di memorabile da raccontare del tratto Chiuppano – Bassano, ma, imboccata la “Destra Brenta”, strada che da Bassano corre parallela alla SS 47 Valsugana fino a Cismon del Grappa, il paesaggio comincia a farsi interessante. Il Brenta è in piena come raramente mi è capitato di vedere. A Valstagna una colonna di gommoni discende il fiume, teoria di punti giallo-rossi nel tumulto delle rapide, uno spettacolo. Tra l’altro la giornata ce la sta mettendo tutta per farsi ben volere: cielo limpido e caldo estivo, nessuna pericolosa nuvola all’orizzonte.
Proseguiamo fino al Cornale su questa stradina che, abbandonata Valstagna, diventa poco più che una pista ciclabile. L’idea è di salire le “Scale di Primolano” evitando il tunnel di Arsiè, ormai venuto a noia. Qua ci tocca il secondo pacco. Arrivati a Primolano troviamo la strada delle scale chiusa al traffico. Interroghiamo un passante che non ci sa dare lumi, quindi ripieghiamo per lo stramaledettissimo tunnel di cui sopra.
Oltrepassiamo Feltre e ci fermiamo a mangiare una pizza in centro a Belluno, anche per ricaricare l’interfono. Viaggiare in compagnia e potersi parlare, commentare il paesaggio eccetera è tutt’altra cosa!
Vabbeh, lo ammetto, ad un certo punto mi sono quasi perso. Ma alla fine riusciamo ad intercettare la SS Allemagna ed arrivare in vista di Longarone. Diamo da bere alla zia Peggy e ci appropinquiamo alla salita.
La prima foto di me e la zia Peggy insieme! Sullo sfondo la valle del Vajont
La strada che porta alla diga è semplicemente infestata di gente che va di fretta: “ciucciamanubri” ci sfrecciano da ogni parte infastiditi dalla mia andatura assolutamente turistica. Perfino un demente in macchina azzarda una manovra da manuale dell’aspirante suicida
Un paio di gallerie e qualche tornante e ci troviamo al cospetto del più mastodontico monumento all’idiozia umana.
Alta 264,6 metri, all’epoca della costruzione (iniziata nel 1957 e terminata nel 1959) era la più alta diga a doppio arco del mondo. Costruita dalla Società Adriatica Di Elettricità, la S.A.D.E. (da cui il titolo...), successivamente ceduta all’ENEL nell’ambito della nazionalizzazione degli enti di produzione elettrica in atto nel periodo immediatamente precedente il disastro.
Il colpo d’occhio è semplicemente mozzafiato. Da dove siamo non riusciamo a vedere il piede della diga. Al di là il paesaggio si fa quasi lunare. Più imponente del manufatto è l’accumulo della frana, che forma una vera e propria montagna dove prima c’era una gola profonda quasi trecento metri.
Alzando la testa è chiaramente visibile l’ampia ferita sul fianco del monte Toc, la cosiddetta “M” di Muller, dal nome del geologo austriaco che aveva individuato la possibile frana. Si sviluppa per un fronte di circa due km e c’è una strada che passa alla sua base.
Proseguiamo alla volta dell’abitato di Casso. Il paese è abbarbicato sul pendio del monte Salta, quasi in corrispondenza della diga. Qui il tempo sembra essersi fermato, c’è pure un’auto d’epoca parcheggiata nella piazzetta del paese, unico posto raggiungibile dai mezzi motorizzati. Casso è stato solamente lambito dall’onda, data la sua posizione elevata, e conserva tutto il facino dell’antico borgo di montagna.
io non posso entrare...
Da Casso proseguiamo in nostro periplo di quel che resta del lago del Vajont. Adesso l’obiettivo è la strada che passa sulle pendici del Toc, sotto il punto da cui si è staccata la frana e che probabilmente riproduce il tracciato della strada che la S.A.D.E. aveva fatto costruire attorno al lago e che passa per le frazioni di San Martino Prada e Pineda, borghi completamente cancellati dalla furia dell’acqua. Transitiamo attraverso il centro storico di Erto, ovvero la parte che si è salvata e successivamente restaurata. Devono aver fatto degli interventi negli ultimi anni, non me la ricordavo messa così bene...
Finalmente arriviamo dall’altra parte della valle. La strada che cavalca il monte Toc si rivela una splendida sorpresa! In parte sterrata, disseminata di gallerie dai soffitti perennemente gocciolanti, si snoda lungo il pendio regalandoci viste incredibili della valle sottostante. Le gallerie sono talmente infiltrate d’acqua che all’interno pare sia in atto un acquazzone, il fondo cosparso di buche e pozzanghere.
La strada prosegue attraversando piccoli grumi di case costruite sicuramente successivamente al disastro, inframezzate da boschi di conifere. La zia Peggy morde allegramente la ghiaia, finalmente si va in giostra! In realtà i tratti sterrati sono pochi e brevi, anche se si fatica a distinguerli dall’asfalto frantumato e smangiato dall’acqua. Arriviamo al punto da cui inizia la fatidica “M”. La spaccatura nella montagna è ancora evidente, così come la cascata di ghiaia che precipita nella valle. Quella notte nel bacino ne son caduti 270 milioni di metri cubi, alla velocità di 30 m/s. Ma la diga ha retto. Pur con una sollecitazione pari a sette volte quella per cui era stata costruita. Bravi tutti. NESSUNO PAGA!
Fa un effetto strano guardare la valle da qui. Ci si rende conto delle dimensioni. Leggendo la storia di carta, non si riesce davvero a concepire l’enormità “fisica” degli elementi in gioco.
Da qui la strada chiude l’anello sfociando sulla statale poco sopra il parcheggio sovrastante la diga. È ormai troppo tardi per proseguire per la Val Cellina. Torniamo verso Longarone e da lì a casa.
PS. portate pazienza per la qualità delle foto, sono fatte col cellulare, dato che mia madre si è portata la macchina fotografica in Egitto...