STRADE PERSE
Inviato: lun 12 ott, 2009 9:22 am
STRADE PERSE
IL NOME DELLA STRADA
“Where the streets have no name” cantava Bono Vox con i suoi U2 nel 1987, ma si sbagliava: le strade hanno sempre un nome, solo che quasi sempre non lo sappiamo, o ce lo dimentichiamo.
Anche i sentieri e le mulattiere hanno quasi sempre un nome, ma è molto difficile da scoprire, non c'è il palo con l'insegna in lamiera a rivelarcelo; qualche volta, se si è fortunati, una pietra, un cippo, una targa consunti dal tempo portano l'antica denominazione della via; altre volte non c'è nemmeno quella, e solo la parola, scritta e parlata, di qualcuno che ne sa di più può aiutarci a sciogliere l'enigma.
Da quando vado per monti in moto ho sempre avuto il problema di spiegare a chicchessia per dove sono passato; nel primo gruppo di cui feci parte, molto chiuso sia come partecipanti sia come zone di girata, c'era l'abitudine del capo di battezzare i sentieri con nomi di sua invenzione: c'era allora il sentiero delle “Capre”, di questo ben più di uno, praticamente ogni sentiero impestato aveva questo appellativo; quello di “Tarzan”, perchè bisognava “lanciarsi”, mai capito dove fosse; il “Terraio” dal fondo soffice; il “merdaio”, non serve spiegazione,;il “Corvo Morto”, dalla famosa gara estrema francese, la Gilles Lalay Classic; i “3 Scalini Bastardi”, 4 scalini bastardi (mai capito perché ci si dimentica sempre di uno); oppure quelli legati al nome di una vicina contrada, di arrivo o partenza: i “Feltrini”, il “Riolo”, ecc., ecc..
Molto suggestivo tutto ciò, ma appena cambiavi gruppo, anche se parlavi degli stessi posti, non ci si capiva più.
Da parte mia, ho sempre cercato di imparare i nomi della antica civiltà rurale, consultando mappe e guide del territorio; in tal modo ho imparato tantissimo sulla geografia e sulla storia locale, e girare in moto (ed anche a piedi o in bici) non è più solo un mero benché godurioso scavalcare sassi, salite, montagne e valli, ma viaggiare nel tempo e nello spazio.
IL MOTOALPINISTA E IL PROFESSORE
Nel vagare fra gli scaffali di biblioteca e librerie, ho scoperto un autore locale, L.C., professore di scuola, autore di molteplici volumi sui sentieri delle vallate vicentine. Quest'uomo è un grande, ha fatto un lavoro immane: non si tratta della solita guida con riportati i soliti sentieri censiti, segnati, mantenuti in efficienza dal CAI, che, in una valle, possono essere 10, 20, magari anche 30; no, l'esimio L.C. Ha censito centinaia di sentieri, noti e sconosciuti, fino ai semplici collegamenti fra sentiero e sentiero, fra contrada e contrada; e per ognuno di essi non solo fornisce le consuete note tecniche (dislivello, tempo di percorrenza, note alle condizioni climatiche, bivi e quant'altro) ma aggiunge una miriade di informazioni storico-culturali-antropologiche raccolte sul campo dagli ultimi anziani rimasti. Per cui ti dice come era noto il sentiero fra i montanari, come si chiamava il prato (Il Prato!!) a metà sentiero, come il bosco di lato, come il baito semi diroccato che si incontra; ti dice chi passava di li, perché, per andare dove, per fare cosa.
Incredibile, la bibbia dell'esploratore.
Ma c'è un però: L.C. Odia le moto! In ogni libro, nella introduzione, non manca di lanciare i suoi strali contro il “MOTOCROSS” che rovina i sentieri, spaventa gli animali, inquina l'aria; addirittura in una vecchia edizione di una sua opera c'è la foto di 2 KTM anni '70 ferme su una famosa mulattiera! Bisognerebbe spiegargli che trial e motoalpinismo sono molto diversi dal “MOTOCROSS” ma, si sa, non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire … chissà che direbbe se sapesse che il suo maggior lettore è un motociclista!!!
4 STRADE 4: LE LAITE
Le contrade sono sparse sui monti attorno al paese di fondovalle, Posina, come pianeti attorno al sole; le poche strade moderne le uniscono tutte serpeggiano da una all'altra, cercando sui pendii le aree maggiormente adatte alla costruzione della carreggiata, delle svolte, dei tornanti per le auto; non così i sentieri antichi, da fare a piedi, quindi pensati per ridurre la fatica: quasi ogni contrada ha il suo, che conduce al capoluogo di fondovalle.
Praterie sulle Laite
Il primo che affronto è il sentiero delle Laite: antica parola di origine cimbra, ossia tedesca, che significa “pendio”, tantissime contrade nelle prealpi venete si chiamano così. E salgo un pendio erboso dove non v'è più traccia del sentiero, mantenendomi ai margini di una valletta percorsa dal un torrentello; scavalco la strada asfaltata, entro in contrada e qui si ritrovo l'antico sentiero.
La vegetazione estiva lo ha sommerso, pare di guidare dentro un tunnel verde. Non è ripido, ma molto stretto, curve e tornanti metterebbero in difficoltà le potenti e grosse enduro, così come i piccoli smottamenti che ogni tanto incontro. Robuste masiere contengono il pendio a monte, ultime vestigia di fittissimi terrazzamenti ormai fagocitati dalla vegetazione. E pensare che questa esile traccia nel bosco, nel passato, aveva dignità di Strada Comunale: ci passavano con le granaglie faticosamente coltivate e raccolte negli aspri pendii, per portarle a macinare nei mulini di fondovalle, ci passavano con la legna e le patate da vendere, risalivano con i pochi acquisti che necessitavano alla autosufficiente economi di contrada.
Tutto bene, finché mi si para davanti un grosso tubo arancio di plastica: qualche acquedotto? Lo scavalco, con l'enduro sarei morto di fatica, ma poi c'è una rampa scavata dall'acqua con enormi macigni in mezzo: se fossi un bravo trialista danzerei sulle punte degli scarponi fra le pietre, ma siccome sono un pessimo motoalpinista mi limito ad accompagnare la moto al fianco: tanto il Fantic sale meglio così!
Sorpresa! Esco dal bosco e mi trovo al centro di uno squarcio immane, un cratere grondante pietre e sassi dalle pareti, di fronte a me una vena d'acqua perenne tinge di scuro le rocce (ecco il perché del tubo arancio, era lo scolo dell'acqua). Ma non è stata una meteorite a fare ciò, ma l'uomo; trattasi di una cava di bentonite, attiva fin a non molti anni fa, che si è divorata una enorme fetta della montagna.
Antiche, possenti masiere dicono quanto fosse importante questa via nel passato
Enormi macigni ostacolano la mia avanzata
Nel cratere ai piedi del m.te Maio
Ma quanto brutta è questa cava? La “Waste land” osservata dall'acrocoro silenzioso di meravigliose montagne attorno? Ma una cava è brutta sempre, anche alla periferia di una grande città; anche se devo dire che ha un fascino sinistro, il lato oscuro delle cose, e non perché ci faccio i salti in moto.
Talaltro uscire dal catino non si rivela semplice, e non per la pendenza, dato che c'è una specie di rampa di accesso; ma per il fondo stesso della cava, un impasto di terra grigia come cenere, ma soffice come polenta fusa! Le ruote del Fantic affondano nella melma, ed anche camminarci sopra non è facile, gli scarponi affondano nelle sabbie mobili ad ogni passo. Accompagno il trial a mano, cercando di condurlo al bordo delle pareti della cava, dove il terreno è più consistente.
Uscito dal cratere, mi reco nella più vicina contrada a rifornirmi d'acqua fresca, per proseguire verso un'altra strada persa.
Nella palude sul fondo del catino
Oltre l'inferno della cava le montagne del Paradiso
Sul ciglio dell'abisso
Pregevole fontana con mascherone
4 STRADE 4: LE OVAROLE
La seguente via che percorro si può ben meritarsi l'appellativo di autostrada del passato: ovviamente non per l'ampiezza, ma per l'importanza dei collegamenti e la frequentazione. Era chiamata delle “Teragnole”ossia donne della valle di Terragnolo, la valle speculare a questa, sita in territorio trentino, oltre il passo della Borcola. Queste donne erano dette “ovarole”, in quanto il principale scopo del loro peregrinare era il commercio delle uova. Compravano uova in giro per le contrade, da rivendere sulla piazza di Rovereto; oppure addirittura facevano baratto, uova contro salumi, formaggi, sementi, piantine; tutto in 2 o più giorni tra andata e ritorno, rigorosamente a piedi, col carico sulle spalle: commovente nella sua semplicità e povertà.
Mi ero già cimentato nel cammino delle “ovarole” anni fa, con l'XR 400, e l'amico Diego, ma i nostri mezzi erano troppo grossi per passare in sicurezza, e ripiegammo.
Oggi con Fantic ho un mezzo a misura del sentiero, avanzo tranquillo tra le sponde in pietra, ogni tanto i fitti rami del bosco si aprono, lasciandomi ammirare le possenti montagne attorno.
Il sentiero proseguirebbe in costa verso il passo, ma diventa una traccia labile, la vegetazione è così invasiva che anche a piede interferisce nella marcia.
Giungo ad un bivio, dove la via che scende dovrebbe portare a valle, alla contrada di Leder, chiaro toponimo di origine tedesca (leder come l'anglosassone leather, cuoio, leder, posto dove lavorano il cuoio); non mi posso sbagliare, al bivio ci deve essere una tezza, cioè una casupola usata dai montanari durante i lavori nei boschi: ma la tezza non c'è! Dove sono finito?
Guarda con attenzione e la trovo la tezza, o meglio quel che rimane, l'impronta dell'edificio sommerso dalle piante: e pensare che qui vi lavoravano alacremente, fino a meno di 50 anni fa.
Sul cammino delle “ovarole”
Pausa nel bosco
Sentieri che scompaiono
Montagne e ...
… e montagne
gli oramai quasi irriconoscibili resti di una tezza
Il Trapper Solitario
4 STRADE 4: I CAVAI E LA SIMA
Giunto a Leder, riprendo a salire per la strada dei “Cavai”: chiara etimologia, “cavalli”, roba grossa, sentiero importante; detto altre sì “De'a Tera rossa” dal colore delle argille predominanti rispetto al consueto calcare di queste valli.
Qui non sono riuscito a scattare nemmeno una foto, il sentiero mi preso troppo; svolte e contro svolte continue, rampe sconnesse e pietre rotolanti, non avevo proprio tempo di estrarre la fotocamera, e poi, sinceramente, mi stavo divertendo un sacco a danzare sulle punte del trial da una sponda all'altra!
Ma sul più bello, affronto una rampa al limite del ribaltamento, raggiungo il crinale, ed oltre, il vuoto! Il terreno scompare da sotto le ruote, ma mi fermo in tempo prima di volare in cielo: sono di nuovo alla cava, giunto da un'altra direzione. Con cautela scendo nel girone sommitale della cava e, navigando fra i macigni, ne guadagno l'uscita.
Dato che sono ritornato dov'ero, ne approfitto per tentare la discesa per un sentiero che avevo scartato in precedenza, il sentiero “de'a Sima”.
Di questo non so dire l'origine del nome, nemmeno L.C. Si sbilancia in ciò: non credo centrino le scimmie, più probabile che sia la “cima” del monte; infatti, prima di iniziare la discesa vera e propria, devo guadagnare la cima di un crinale boscoso, che mi procua non poche difficoltà nel superarlo: sia per una rampetta maligna che mi fa tribolare un po', ma soprattutto perché i sentieri sono poco più che tracce semi scomparse, non è facile riconoscere quale è un camminamento che porta ad un casotto da caccia e quale è un sentiero di passaggio, e sopratutto quale è quello che devo seguire. Ma alfine trovo il bandolo della matassa, e, superando trinceroni di guerra e ricoveri in roccia, inizio la discesa della “Sima”.
Il sentiero tira in giù che è un piacere, mi incollo ai freni e sto col sedere sulla ruota posteriore, è un bel faticare, anche per il caldo umido che a metà giornata è soffocante, nonostante la quota.
Di nuovo! Gira e rigira ma si ritorna sempre all'Inferno!
Trincerone sul crinale: opera della guerra o della natura? Oramai non si distingue più.
Ricovero militare o assaggio di cava? Propendo per il primo.
Giù per la “Sima”
Si vede la “Sima” che mi balla in testa? Non ce la faccio più!!!!!
E qui si conclude il giro, ma di strade perse ne ho ancora molte da esplorare …
Ciao
Alves
IL NOME DELLA STRADA
“Where the streets have no name” cantava Bono Vox con i suoi U2 nel 1987, ma si sbagliava: le strade hanno sempre un nome, solo che quasi sempre non lo sappiamo, o ce lo dimentichiamo.
Anche i sentieri e le mulattiere hanno quasi sempre un nome, ma è molto difficile da scoprire, non c'è il palo con l'insegna in lamiera a rivelarcelo; qualche volta, se si è fortunati, una pietra, un cippo, una targa consunti dal tempo portano l'antica denominazione della via; altre volte non c'è nemmeno quella, e solo la parola, scritta e parlata, di qualcuno che ne sa di più può aiutarci a sciogliere l'enigma.
Da quando vado per monti in moto ho sempre avuto il problema di spiegare a chicchessia per dove sono passato; nel primo gruppo di cui feci parte, molto chiuso sia come partecipanti sia come zone di girata, c'era l'abitudine del capo di battezzare i sentieri con nomi di sua invenzione: c'era allora il sentiero delle “Capre”, di questo ben più di uno, praticamente ogni sentiero impestato aveva questo appellativo; quello di “Tarzan”, perchè bisognava “lanciarsi”, mai capito dove fosse; il “Terraio” dal fondo soffice; il “merdaio”, non serve spiegazione,;il “Corvo Morto”, dalla famosa gara estrema francese, la Gilles Lalay Classic; i “3 Scalini Bastardi”, 4 scalini bastardi (mai capito perché ci si dimentica sempre di uno); oppure quelli legati al nome di una vicina contrada, di arrivo o partenza: i “Feltrini”, il “Riolo”, ecc., ecc..
Molto suggestivo tutto ciò, ma appena cambiavi gruppo, anche se parlavi degli stessi posti, non ci si capiva più.
Da parte mia, ho sempre cercato di imparare i nomi della antica civiltà rurale, consultando mappe e guide del territorio; in tal modo ho imparato tantissimo sulla geografia e sulla storia locale, e girare in moto (ed anche a piedi o in bici) non è più solo un mero benché godurioso scavalcare sassi, salite, montagne e valli, ma viaggiare nel tempo e nello spazio.
IL MOTOALPINISTA E IL PROFESSORE
Nel vagare fra gli scaffali di biblioteca e librerie, ho scoperto un autore locale, L.C., professore di scuola, autore di molteplici volumi sui sentieri delle vallate vicentine. Quest'uomo è un grande, ha fatto un lavoro immane: non si tratta della solita guida con riportati i soliti sentieri censiti, segnati, mantenuti in efficienza dal CAI, che, in una valle, possono essere 10, 20, magari anche 30; no, l'esimio L.C. Ha censito centinaia di sentieri, noti e sconosciuti, fino ai semplici collegamenti fra sentiero e sentiero, fra contrada e contrada; e per ognuno di essi non solo fornisce le consuete note tecniche (dislivello, tempo di percorrenza, note alle condizioni climatiche, bivi e quant'altro) ma aggiunge una miriade di informazioni storico-culturali-antropologiche raccolte sul campo dagli ultimi anziani rimasti. Per cui ti dice come era noto il sentiero fra i montanari, come si chiamava il prato (Il Prato!!) a metà sentiero, come il bosco di lato, come il baito semi diroccato che si incontra; ti dice chi passava di li, perché, per andare dove, per fare cosa.
Incredibile, la bibbia dell'esploratore.
Ma c'è un però: L.C. Odia le moto! In ogni libro, nella introduzione, non manca di lanciare i suoi strali contro il “MOTOCROSS” che rovina i sentieri, spaventa gli animali, inquina l'aria; addirittura in una vecchia edizione di una sua opera c'è la foto di 2 KTM anni '70 ferme su una famosa mulattiera! Bisognerebbe spiegargli che trial e motoalpinismo sono molto diversi dal “MOTOCROSS” ma, si sa, non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire … chissà che direbbe se sapesse che il suo maggior lettore è un motociclista!!!
4 STRADE 4: LE LAITE
Le contrade sono sparse sui monti attorno al paese di fondovalle, Posina, come pianeti attorno al sole; le poche strade moderne le uniscono tutte serpeggiano da una all'altra, cercando sui pendii le aree maggiormente adatte alla costruzione della carreggiata, delle svolte, dei tornanti per le auto; non così i sentieri antichi, da fare a piedi, quindi pensati per ridurre la fatica: quasi ogni contrada ha il suo, che conduce al capoluogo di fondovalle.
Praterie sulle Laite
Il primo che affronto è il sentiero delle Laite: antica parola di origine cimbra, ossia tedesca, che significa “pendio”, tantissime contrade nelle prealpi venete si chiamano così. E salgo un pendio erboso dove non v'è più traccia del sentiero, mantenendomi ai margini di una valletta percorsa dal un torrentello; scavalco la strada asfaltata, entro in contrada e qui si ritrovo l'antico sentiero.
La vegetazione estiva lo ha sommerso, pare di guidare dentro un tunnel verde. Non è ripido, ma molto stretto, curve e tornanti metterebbero in difficoltà le potenti e grosse enduro, così come i piccoli smottamenti che ogni tanto incontro. Robuste masiere contengono il pendio a monte, ultime vestigia di fittissimi terrazzamenti ormai fagocitati dalla vegetazione. E pensare che questa esile traccia nel bosco, nel passato, aveva dignità di Strada Comunale: ci passavano con le granaglie faticosamente coltivate e raccolte negli aspri pendii, per portarle a macinare nei mulini di fondovalle, ci passavano con la legna e le patate da vendere, risalivano con i pochi acquisti che necessitavano alla autosufficiente economi di contrada.
Tutto bene, finché mi si para davanti un grosso tubo arancio di plastica: qualche acquedotto? Lo scavalco, con l'enduro sarei morto di fatica, ma poi c'è una rampa scavata dall'acqua con enormi macigni in mezzo: se fossi un bravo trialista danzerei sulle punte degli scarponi fra le pietre, ma siccome sono un pessimo motoalpinista mi limito ad accompagnare la moto al fianco: tanto il Fantic sale meglio così!
Sorpresa! Esco dal bosco e mi trovo al centro di uno squarcio immane, un cratere grondante pietre e sassi dalle pareti, di fronte a me una vena d'acqua perenne tinge di scuro le rocce (ecco il perché del tubo arancio, era lo scolo dell'acqua). Ma non è stata una meteorite a fare ciò, ma l'uomo; trattasi di una cava di bentonite, attiva fin a non molti anni fa, che si è divorata una enorme fetta della montagna.
Antiche, possenti masiere dicono quanto fosse importante questa via nel passato
Enormi macigni ostacolano la mia avanzata
Nel cratere ai piedi del m.te Maio
Ma quanto brutta è questa cava? La “Waste land” osservata dall'acrocoro silenzioso di meravigliose montagne attorno? Ma una cava è brutta sempre, anche alla periferia di una grande città; anche se devo dire che ha un fascino sinistro, il lato oscuro delle cose, e non perché ci faccio i salti in moto.
Talaltro uscire dal catino non si rivela semplice, e non per la pendenza, dato che c'è una specie di rampa di accesso; ma per il fondo stesso della cava, un impasto di terra grigia come cenere, ma soffice come polenta fusa! Le ruote del Fantic affondano nella melma, ed anche camminarci sopra non è facile, gli scarponi affondano nelle sabbie mobili ad ogni passo. Accompagno il trial a mano, cercando di condurlo al bordo delle pareti della cava, dove il terreno è più consistente.
Uscito dal cratere, mi reco nella più vicina contrada a rifornirmi d'acqua fresca, per proseguire verso un'altra strada persa.
Nella palude sul fondo del catino
Oltre l'inferno della cava le montagne del Paradiso
Sul ciglio dell'abisso
Pregevole fontana con mascherone
4 STRADE 4: LE OVAROLE
La seguente via che percorro si può ben meritarsi l'appellativo di autostrada del passato: ovviamente non per l'ampiezza, ma per l'importanza dei collegamenti e la frequentazione. Era chiamata delle “Teragnole”ossia donne della valle di Terragnolo, la valle speculare a questa, sita in territorio trentino, oltre il passo della Borcola. Queste donne erano dette “ovarole”, in quanto il principale scopo del loro peregrinare era il commercio delle uova. Compravano uova in giro per le contrade, da rivendere sulla piazza di Rovereto; oppure addirittura facevano baratto, uova contro salumi, formaggi, sementi, piantine; tutto in 2 o più giorni tra andata e ritorno, rigorosamente a piedi, col carico sulle spalle: commovente nella sua semplicità e povertà.
Mi ero già cimentato nel cammino delle “ovarole” anni fa, con l'XR 400, e l'amico Diego, ma i nostri mezzi erano troppo grossi per passare in sicurezza, e ripiegammo.
Oggi con Fantic ho un mezzo a misura del sentiero, avanzo tranquillo tra le sponde in pietra, ogni tanto i fitti rami del bosco si aprono, lasciandomi ammirare le possenti montagne attorno.
Il sentiero proseguirebbe in costa verso il passo, ma diventa una traccia labile, la vegetazione è così invasiva che anche a piede interferisce nella marcia.
Giungo ad un bivio, dove la via che scende dovrebbe portare a valle, alla contrada di Leder, chiaro toponimo di origine tedesca (leder come l'anglosassone leather, cuoio, leder, posto dove lavorano il cuoio); non mi posso sbagliare, al bivio ci deve essere una tezza, cioè una casupola usata dai montanari durante i lavori nei boschi: ma la tezza non c'è! Dove sono finito?
Guarda con attenzione e la trovo la tezza, o meglio quel che rimane, l'impronta dell'edificio sommerso dalle piante: e pensare che qui vi lavoravano alacremente, fino a meno di 50 anni fa.
Sul cammino delle “ovarole”
Pausa nel bosco
Sentieri che scompaiono
Montagne e ...
… e montagne
gli oramai quasi irriconoscibili resti di una tezza
Il Trapper Solitario
4 STRADE 4: I CAVAI E LA SIMA
Giunto a Leder, riprendo a salire per la strada dei “Cavai”: chiara etimologia, “cavalli”, roba grossa, sentiero importante; detto altre sì “De'a Tera rossa” dal colore delle argille predominanti rispetto al consueto calcare di queste valli.
Qui non sono riuscito a scattare nemmeno una foto, il sentiero mi preso troppo; svolte e contro svolte continue, rampe sconnesse e pietre rotolanti, non avevo proprio tempo di estrarre la fotocamera, e poi, sinceramente, mi stavo divertendo un sacco a danzare sulle punte del trial da una sponda all'altra!
Ma sul più bello, affronto una rampa al limite del ribaltamento, raggiungo il crinale, ed oltre, il vuoto! Il terreno scompare da sotto le ruote, ma mi fermo in tempo prima di volare in cielo: sono di nuovo alla cava, giunto da un'altra direzione. Con cautela scendo nel girone sommitale della cava e, navigando fra i macigni, ne guadagno l'uscita.
Dato che sono ritornato dov'ero, ne approfitto per tentare la discesa per un sentiero che avevo scartato in precedenza, il sentiero “de'a Sima”.
Di questo non so dire l'origine del nome, nemmeno L.C. Si sbilancia in ciò: non credo centrino le scimmie, più probabile che sia la “cima” del monte; infatti, prima di iniziare la discesa vera e propria, devo guadagnare la cima di un crinale boscoso, che mi procua non poche difficoltà nel superarlo: sia per una rampetta maligna che mi fa tribolare un po', ma soprattutto perché i sentieri sono poco più che tracce semi scomparse, non è facile riconoscere quale è un camminamento che porta ad un casotto da caccia e quale è un sentiero di passaggio, e sopratutto quale è quello che devo seguire. Ma alfine trovo il bandolo della matassa, e, superando trinceroni di guerra e ricoveri in roccia, inizio la discesa della “Sima”.
Il sentiero tira in giù che è un piacere, mi incollo ai freni e sto col sedere sulla ruota posteriore, è un bel faticare, anche per il caldo umido che a metà giornata è soffocante, nonostante la quota.
Di nuovo! Gira e rigira ma si ritorna sempre all'Inferno!
Trincerone sul crinale: opera della guerra o della natura? Oramai non si distingue più.
Ricovero militare o assaggio di cava? Propendo per il primo.
Giù per la “Sima”
Si vede la “Sima” che mi balla in testa? Non ce la faccio più!!!!!
E qui si conclude il giro, ma di strade perse ne ho ancora molte da esplorare …
Ciao
Alves