Alzarsi presto la mattina, con null’altro da fare che prendere la moto e andare; affacciarsi alla finestra e osservare le nebbie correre attorno ai diedri di roccia dei 3.000 dolomitici, mentre nella valle laggiù riprendono le umane faccende; uscire all’aria pungente di montagna, raccogliere con un dito il velo di umidità sulla sella della moto; semplici gioie di un giro in moto.
Pelmo, il “Caregon di Dio”.
La Croda da Lago.
Notte all’aperto per il 750.
Antelao dal rifugio Scotter Palatini
Scendendo dal rifugio.
Robusta colazione e si parte.
Obiettivo: la salita ai rifugi Costapiana, Antelao, Capanna Alpini in Val d’Oten e Casera Bajon; salita alla forcella Lavardet e discesa in Carnia per il giro delle malghe di Sauris, monte Zoncolan, giro delle Vette, varie ed eventuali.
Programma troppo ambizioso; se il primo giorno fossi riuscito a partire la mattina, avrei soggiornato, o almeno speravo, al rifugio Antelao o addirittura al Bajon, in modo da riservare il secondo giorno solo alla Carnia: ma le cose non vanno mai come si crede…
Stupidamente perdo una buona mezzora alla fantomatica ricerca della chiusura di un anello sterrato che si sarebbe dovuto ricollegare alla discesa dal Talamini della sera prima, ma la sterrata è vietata dal lato di San Vito, mentre era aperta dal Talamini: il solito vicolo cieco che porterà a qualche malga.
Imbocco anche la salita per il Costa Piana, ma si sale per asfalto per troppo, così mi giro ancora prima di arrivarci e scendo a valle; abbandono anche un’altra possibile sterrata dalle parti di Venas e tosto vado verso l’Antelao (rifugio).
Cartolina dal Cadore: Valle di Cadore.
Digressione sulla moto e l’arte di viaggiare in 2 (pilota e passeggero).
Ho cominciato a 15 anni a mettermi qualcuna dietro, con la speranza di rimorchiare, ed ho proseguito caricandomi dietro amici, parenti, fidanzate, moglie, figli, con il 125, con l’XR600, con l’XR400, con l’Elefant 750, con le ipersportive 650 e 600 di mio fratello. Con tutte queste moto è stato brutto viaggiare in due!
Con le ipersportive io stavo curvo come il gobbo di NotreDame, polsi dolenti e palle frullate sul serbatoio, mentre la moglie (alta 1.80 m), ginocchia in bocca, sbandierava mezzo metro sopra la mia testa come una vela strappata dall’albero.
Col 125 sempre la mogliettina si lamentava del poco spazio, di prendersi nella schiena il maniglione del passeggero, il 400 e la sua sella da fachiro non ho mai avuto il coraggio di proporgliela, col 600 era già meglio col grande sellone, col 750 molto meglio, ma dopo 100 km di montagna per andare al lago eravamo entrambi distrutti!
Col passeggero ti ritrovi un mucchio di kg a far zavorra sul posteriore, l’avantreno non ha carico e per girare servirebbe il timone a ruota di una nave, altro che il manubrio! Se il passeggero è alto si formano vortici tra le teste, in frenata ti cascano addosso, ed è ardua spiegargli che non devono tenersi a te ma alla moto, pare quasi che gli dici che non vuoi che ti tocchino.
Non puoi alzarti in piedi o arretrare sulla sella, le sospensioni vanno a pacco sulle minime asperità.
In fuoristrada poi è tutto peggiorato al cubo…
Ma esistono moto comode in 2 e piacevoli da guidare?
Gli scooteroni sono certamente comodi, ma mi pare di essere seduto sul water, con relative emozioni, idem le custom; affari tipo Honda Gold Wing e simili sono sicuramente comodi, ma sono divertenti in una strada tutta curve di montagna? Mahhh…
Restano solo le BMW GS o le KTM LC8, forse quelle si che sono divertenti anche in 2… intanto mi piego alla contingenza del momento, ma la moto è single.
Per fortuna che ho Matteo come passeggero, è ancora abbastanza piccolo da non provare eccessivamente il mio stanco fisico!
ANTELAO
A Pieve di Cadore imbocchiamo al salita al rifugio Antelao; prima parte asfaltata, ma già a quota relativamente bassa appare lo sterrato, e che sterrato! Pista favolosa, ed impegnativa. È stretta, lunga, con pochissimi rettilinei e tante curve e tornanti; ci sono dei tratti esposti che fanno paura: il pendio precipita quasi verticale immediatamente oltre il ciglio della strada, non c’è da nessuna parte la minima protezione; la pendenza c’è, il fondo è di scaglia grossa, il pendio lato monte non è minimamente consolidato e lentamente si sfalda lasciando detriti sulla già stretta carreggiata, pare quasi che la strada sia stata aperta l’altro ieri a colpi di buldozer!
Verso il rifugio Antelao.
Lago di Pieve di Cadore.
Con tutto il peso caricato dietro ho poca direzionalità sull’anteriore, bastano piccoli ostacoli a far deviare la moto dalla sua traiettoria; al centro della carreggiata c’è in rilievo la solita striscia di sassi risparmiata dal passaggio delle 4 ruote, ai lati è più battuta, la più pulita è quella verso valle, perché la striscia battuta a monte è contatto con gli smottamenti del pendio non consolidato: ma chi si fida a passare all’esterno, col rischio di fare un tuffo diretto fino al Lago di Pieve di Cadore? E allora sto a ridosso del pendio, impuntandomi ogni 3 metri e rischiando di grattare con le valige sui sassi.
Finché non incrocio un 4x4 che scende: devo far scendere Matteo, adagiare la moto sulle valigia il più possibile verso monte; il fuoristrada mi scorre a lato, le sue lamiere sfiorano le mie per meno di 2-3 centimetri, sul suo lato verso valle non oso immaginare: fatta!
Matteo sperimenta le gioie dell’enduro!
Pausa.
Matteo è preso dallo sterrato, io un po’ meno; cioè, è un percorso superbo, ma alla guida di 4 quintali su 2 ruote è faticoso, difficile ed anche pericoloso, tanto che ingiungo a Matteo di non dire alla mamma dove siamo passati, pena divorzio istantaneo da parte di lei.
Ed il bello che quando vedrà le foto scherzosamente mi chiederà proprio quello!
Giunta quasi alla sommità del monte, la pista perde quota per un tratto ancora impegnativo per fondo e sporgenza, fino alla forcella Antracisa; oltre c’è l’ultimo tratto fino al rifugio, dove cambia tutto: fondo di terra umida da sottobosco, con pozzanghere e fango nero, radici affioranti.
Traffico in mulattiera.
Matteo al rifugio Antelao, quasi 1.800 m.s.l.m..
Ultimi sforzi ed ecco il rifugio, carinissimo!
Caffè e coca (Cola), telefonata alle donne, foto, pausa, partenza; ma sarebbe stato da fermarsi lì a lungo, da quanto bello era: ci avevo visto giusto a voler dormirci.
Io me medesimo.
Nostra prossima meta.
Traffico in mula 2.
VAL D’OTEN
Un pezzo di “hammada”, deserto roccioso, trapiantato tra i massicci dell’Antelao e delle Marmarole. Una colata di ghiaia che invade tutta la vallata, spazzando strada e quant’altro a seconda delle piene del torrente.
Pensavo che il tratto off fosse molto più lungo, ma l’asfalto risale molto la valle (anche se ho notato dei tagli su mulattiera che non mi sono fidato a fare con l’Elefant), fino alla località “Bar Pineta”, e da li al rifugio Capanna degli Alpini sono solo 4 km di strada sterrata, poi c’è il divieto.
Ma mi sono bastati, anzi, ne ho pure avanzati!
Una transenna con divieto avvisava che la strada era chiusa per smottamenti dovuti ad alluvione, ma tutti andavano oltre con SUV e fuoristrada vari, sicché avanti pure noi.
Prendevamo quota sul ghiaione, poi la pista entrava in un boschetto, o almeno in quella parte risparmiata dai sassi: lingue di ghiaia e detriti ovunque, la stessa strada ad un certo punto era ridotta ad un fossato scavato dai flutti; e noi? Dentro!
Ma era troppo accidentato, ad un tratto un forte colpo a sinistra, la valigia ha impattato su qualcosa, forse un sasso, forse la scarpata; la moto scarta di colpo a destra, ma la tengo e mi incastro con la ruota sulla sponda opposta della trincea. Niente di grave: l’angolo del baule è smussato, la valigia è svergolata, ma si può proseguire.
Ma c’è una rampa di terra alta almeno un metro da superare; per sicurezza faccio salire Matteo a piedi, e da solo porto il Cagiva sopra l’ostacolo. Si riparte in sella, ma ora sotto ai tasselli c’è una ghiaia finissima che si comporta come sabbia, le ruote affondano e sbandano su tale appoggio inconsistente; usciamo dal boschetto fino al grande letto del torrente vero e proprio, e quel che vedo non mi piace: la strada è stata cancellata, si dovrebbe scendere in “libera” nel greto, superando montagnole di ghaia; con una leggera monocilindrica sarebbe facile, ma col pachiderma Cagiva chi mi viene a recuperare dall’insabbiamento quasi certo?
Poi la pista prosegue al centro del torrente, anche messa bene, ma non mi fido. Giriamo la moto e scendiamo.
Nei ghiaioni della Val d’Oten.
Val d’Oten 1.
Val d’Oten 2.
La resa.
La famigliola superata poco prima ci saluta con allegria e simpatia, senza essere schifata dal nostro passaggio in moto, increduli che abbiamo passato il tratto alluvionato; ci informano che un Toyota sta cercando di salire, ma lo troveremo già impegnato in una faticosa retromarcia, il suo pilota aveva già deciso di rinunciare.
Il ritorno.
MARMAROLE
È già ora di pranzo, come avete capito siamo buone forchette, ma almeno raggiungiamo il successivo rifugio, mangiamo all’ombra delle dolomiti!
La salita al Bajon un po’ mi delude: sulla carta è lunghissima, ma i primi 12 km sono asfaltati, sugli articoli di Motociclismo ciò era appena accennato. Una strada stretta, che sembra non finire mai, piena di tornanti; strada da percorrere in senso alternato, la mattina in salita, il pomeriggio in discesa, non lo sapevo, ma non mi pare tanto rispettata con scrupolo la prescrizione.
Lo sterrato compare già in alta quota, poco prima dell’ingresso in un altipiano a dir poco meraviglioso, il Pian dei Buoi: attorno alla strada, pascoli e malghe, alcune diroccate, altre in ottime condizioni; a destra, le torri di roccia delle Marmarole, con i rifugi; a sinistra, rilievi più bassi, con partenze per itinerari sulle tracce della Grande Guerra, trincee, forti, postazioni.
E andiamo per prima cosa verso il rifugio Bajon; piacevolissima sterrata quasi sempre dentro il bosco, ma basta alzare la testa e fanno capolino le vette dolomitiche; facile, buon fondo, saliscendi continui, aria fresca e pura, il piacere di guidare ad alta quota.
Pian dei Buoi.
Marmarole.
Bello anche il rifugio Bajon; sorge su un promontorio a dir poco panoramico, con vista su l’Antelao e tutte le montagne della sinistra Piave; è una casera ancora funzionante, con le bestie al pascolo fin sotto i muri, cui uno degli edifici della struttura è adibito a ristoro; tavoli all’aperto su una pedana in legno, una minuscola tettoia con tavoli e panche ricavati da alberi tagliati a metà, un interno piccolissimo e accogliente, col suo “larin”, il focolare con grande cappa e giro panca.
C’è folla, quando chiedo di essere servito mi rispondono se ho prenotato! In rifugio! Ma sono gentili, siamo solo in due e ci fanno da mangiare; Matteo va sul sicuro, gnocchi di patate alla ricotta; io sono più dietetico, zuppa di farro piccante, per secondo un leggero piatto di affettati e salumi misti per entrambi.
montagne, montagne, montagne…
Riesco a fare il genitore – censore anche a 1.800 metri di quota: ci sono un paio di ragazzine in gita con i genitori; ridono e scherzano fra di loro e con quella capacità tutta femminile riescono ad essere aggraziate, carine e pure un po’ civette anche in tenuta da escursioniste, scarponi, calzettoni e zaino; Matteo si lascia andare a commenti poco gentili, disgustato da ciò che vede: lo redarguisco senza troppa convinzione, imparerà a sue spese…
Ma parliamo di cose serie: si discute di moto, di guida in 2, tra le righe vien fuori che, si, è bello fare il passeggero, ma anche a lui pesa la fatica di esserlo, e allora vola con gli anni, a quando sarà grande, se con un 125 potrebbe bastare a venirmi dietro in questi giri! Magari! Di anni ne mancano ancora 4, ma come sarebbe stato esaltante fare un giro simile con 2 moto: mi immagino il ghiaione dell’Oten con l’Elefant a manetta neanche fossi Orioli alla Paris-Dakar, oppure la mulattiera dell’Antelao con l’XR! La moto, anzi le moto, le avrei già: il Fantic 125 trial, ma viaggiarci è ovviamente improponibile; il Cagiva Tamanaco 125, copia ridotta dell’Elefant: con questa si che si andrebbe bene, ci sono stato perfino in Slovenia: già ci vedo, noi 2, su 2 moto quasi gemelle, una 750, altra 125, vagabondare dalla Padania fino alla Dalmazia, dalle lagune marine alle Alpi… ma sul libretto di circolazione ci sono 17 KW, un sedicenne con la patente A1 non potrebbe guidarla, governo ladro!
Vedremo…
Marmarole 1.
Marmarole 2.
Mi rendo conto che la Carnia sta per sfuggirmi; sono le 13.00, qui mi manca ancora il Col Vidal da vistare, poi ci sono gli interminabili 12 km fino a valle, poi il trasferimento fino a Santo Stefano di Cadore a prendere la forcella Lavardet…rimugino senza sosta cosa fare, cosa tagliare, che strada fare per abbreviare il ritorno a casa.
Lasciamo il rifugio ed andiamo verso il Col Vidal, dove c’è una fortezza italiana.
Percorso breve, ma superlativo: sterrata che corre intagliata nel fianco del monte, sospesa fra la terra e il cielo; visioni a volo d’uccello sulla vallata del Piave, mille metri sotto; galleria con semi curva interna, indi si snoda in una densa pineta, fra ruderi di costruzioni e caserme, per terminare con un strappo finale su fondo accidentato in un grande piazzale semicircolare, cui fa da quinta la massiccia facciata di una fortezza annegata nella terra. Tutto attorno un panorama incomparabile: i soliti Antelao e Marmarole, ma anche le Te Cime di Lavaredo, il Cristallo, le Tofane, e altri che non conosco.
Valeva la pena fare tanto asfalto per venire fin qua? Si, ne valeva la pena!
Sospesi tra cielo e terra.
Galleria per il Col Vidal.
Caserme.
La fortezza.
Alves in Marmarole mountains.
Matteo al Col Vidal; lo vedo fotogenico sul 750.
3 Cime di Lavaredo.
FORCELLA LAVARDERT: LA BEFFA
Salutiamo il col Vidal, con la promessa di ritornarci, e iniziamo la lunga discesa a valle; per raggiungere Santo Stefano di Cadore c’è un comodo e lungo tunnel che passa sotto Cima Gogna, ma c’è anche la vecchia strada dismessa dall’ANAS che aggirava il promontorio roccioso per la gola del Piave; volevo farla, ma per accelerare i tempi scelgo il tunnel.
Dopo Santo Stefano c’è il paesino di Campolongo, dove parte la strada che risale la valle del torrente Frison fino alla Lavardet; un torrente dispettoso, scoprirò presto.
Sosta benzina e caffè; sono le 15.00 passate, Matteo è stanco, nei tratti di fondovalle si appoggia assonnato alla mia schiena, io pure sono affaticato; il dì precedente sono stati 200 km faticosi, ed oggi tra su e giù dalle cime ne abbiamo già fatti 100, e siamo a quasi 200 km da casa. Sugli sterrati si fatica, tutti e due, poi su in alto è quasi freddo, ma quando si scende a fondo valle l’afa ti stronca, e poi di nuovo sbalzo termico.
Dalla base (alias casa) ci impongono do non viaggiare di notte (non che mi piaccia particolarmente, ma ho pur sempre una Elefant Bifaro, mica una bici con la dinamo a rullo!) e ci autorizzano a rimanere fuori un’altra notte, ma non vorrei abusare di questa possibilità.
Decido di tagliare tutto il possibile, limitarmi alla Lavardet e al giro di Sauris, e anche così mi domando se non sono un po’ egocentrico a voler a tutti i costi andare avanti: io sono un maniaco di fuoristrada, vorrei poter fare il maggior numero possibile di percorsi ancora possibili dalle nostre parti, ma a Matteo basta e avanza quello fatto finora … partiamo.
Ma nemmeno 2 km fuori Campolongo ci aspetta questo:
Ponte Baley sul torrente Frison.
La frana.
Il ponte Bailey è transitabile, ma oltre il cantiere una massa di detriti staccatasi dal pendio franoso ha invaso la strada. Gli operai del cantiere hanno posizionato, non so se intenzionalmente o meno, ruspa, griglie metalliche e i tubi di cemento in una maniera tale che risulta impossibile aggirarli per attraversare la frana con una 2 ruote. Ma anche se non ci fossero questi ostacoli di mezzo, il fronte di frana è troppo ripido, insuperabile per una bicilindrica, molto difficile anche per una enduro racing.
È un segno del destino, basta forzare la mano agli eventi; sono quasi le 16.00, per raggiungere Sauris dovrei scendere a Vigo di Cadore e fare la forcella Ciampigotto e la sella di Razzo, naaaa! Diciamo addio, per questa volta, alla Carnia, e voltiamo la prua verso Schio.
Già che ci siamo, invece di fare il tunnel percorriamo la vecchia strada:
Sulla strada abbandonata di Cima Gogna.
Secche del Piave.
da paura: crepe, piante cresciute ai lati, sassi e massi precipitati dalla montagna, gallerie con accenni di stalattiti sul soffitto, enormi buche aperte nel fondo stradale in cui occhieggia il Piave … non so da quanto sia chiusa, ma la natura si riprende prepotentemente quanto le spetta.
Cartolina dalla Valle del Piave.
Per il ritorno avevo vagliato qualche variante alpina, il passo Cibiana, o il Cereda per fare poi il monte Vederna, ma alla fine tiro dritto lungo il Piave, per Longarone, Belluno, la sinistra Piave fino a Quero nel trevigiano, indi Bassano per le colline di Possagno e Crespano.
Sono quasi le 19.00 quando arriviamo a Schio, dopo 303 km, 505 con quelli del giorno prima: un signor giro che ci lascia si soddisfatti, ma con la voglia di rifarlo!
Anche perché qualche giorno dopo, ho un flash: apro la cartina riguardante la zona della forcella Lavardet, cosa che non avevo fatto davanti alla frana, fidandomi che vi era una unica via lungo la valle; e cosa vedo? Una traccia tratteggiata, una carrabile che da l’ultimo bar del paese scavalca il dosso da cui è scesa la frana e si riconnette alla SP a monte della interruzione!
Per tutti i diavoli dell’inferno! Forse potevo passare … ma questa è un’altra storia!
Ciao
Alves